Genova 2001 - vi racconto la mia

Perché, di grazia, una che se ne sta in Bolivia e, scommettono tutti, avrebbe una marea di vicende stimolanti e attuali da raccontare, torna a parlare di Genova 2001?

Eccola qui la globalizzazione: seduta nel 2008 a un tavolo di Cochabamba in realtà sto per le strade di Genova nel 2001. Dopo la recente sentenza, butto testa e cuore al mio paese e a quelle vicende. Dopo un tot di video dei pestaggi, le testimonianze, letture e giri a caso nel web, mi incazzo, mi viene da piangere. Fa male tanta violenza, ti entra dentro e non ci puoi credere. Vorrei fare qualcosa... Dobbiamo inventarci qualcosa, direbbe Giovanotti. Ricomincio riscattando la mia di memoria, e vi racconto la mia Genova 2001.

Sabato. A Genova io, Eric sua madre Fanny e alcuni suoi amici ci arriviamo più o meno ad ora di pranzo. Ci mettiamo in cammino verso il concentramento con gli altri scampati al viaggio - lunghissimo - sui binari dell'Italia del nord. Improbabili rotte per fare un corto Milano-Genova. Non ricordo il nome della la stazione, però in periferia ad ovest guardando il mare. Per strada gente e gente, bandiere e simboli. Acqua e panini, bottiglie e cappellini. Macchine fotografiche e maschere. Io ubriaca di tutto dopo anni di allontanamento dalla vita politica e sociale del mio paese e dell'universo in generale. Intanto mi guardo le Nike Silver zarro-fighette e mi chiedo: "Sarà che qualcuno s'incazza e mi insulta per le scarpe?"

Il corteo anticipa la partenza e gli avvisi si rincorrono: state attenti, tenete limoni e fazzoletti a portata di mano, non disperdetevi. Ogni tanto passa un dottore del Genova Social Forum con la pettorina, o qualche altra rassicurazione. Il giorno prima era morto Carlo Giuliani. Con l'incredulità negli occhi avevo deciso che volevo partecipare davvero. Un po' per sfida, un po' per incoscienza, un po' perché ci sono cose che per fortuna ti fanno sollevare. Così ero salita sull'ennesimo treno in partenza da Milano.

Il corteo colorato e multiforme allagava Genova e, dato che era caldo, su una strada con fortino vista mare, qualcuno ci graziava d'acqua dolce sulla testa. Dai balconi fino alla guance accaldate. Quell'immagine bellissima poi l'ho ritrovata in "Mastica e sputa - fotografie e testi sui fatti di Genova" e mi emoziona ancora. Chissà chi era il fotografo, e chissà se l'ha scattata lì dov'ero io.

Scendiamo così con allegria e calma sul lungomare. Un furgoncino pieno di messaggi, clown, bambini. Dopo un po' scavalco la folla e guardo più in là. A destra muro e muro e muro. Un muro antico che ha resistito al tempo e resisterebbe certo anche ai miei tentativi di fuga. A sinistra il mare pieno di puntini neri, non pesci o pescatori. Sommozzatori. Sulla testa elicotteri. Ritorno a guardare Eric e sua madre, guardo Giacoma...bha, mi dico, a che servirà tutto sto spreco di energie?

Qui mi ricordo del silenzio, ma credo che ci sia solo nella mia testa il silenzio. Poi non capisco che succede, però qualcosa succede. Attorno a me le persone si agitano, qualcuno inizia ad urlare, altri spostano le persone cercando di scappare. Io ho paura che qualcuno finisca calpestato. In alto inizia il fumo bianco. Mente locale, sì i fazzoletti li ho, me ne metto uno umido sulla bocca. Mi irrigidisco e mi spavento, non trovo più Eric. E forse anche lui non trova più me, e si spaventa e si irrigidisce. Una ragazza molto alta e magra, con i capelli scuri e una camicina verde con disegni piccoli urla proprio davanti a me. Mi viene da fare la seria e allargo le braccia, dico calma calma, lontani dal parapetto, non correte. Capisco solo ora che a pochi passi il corteo è stato spezzato dalle cariche. Da questa parte un paio con il volto coperto un po' si fanno strada un po' stanno qua. Confusione. Passano momenti lunghi in cui nessuno sa bene che fare. Noi stiamo lì, cerchiamo di capire.

Il corteo mezzo disperso ad un certo punto riparte. O forse no, ripartiamo noi con qualcun'altro. Dentro dei cordoni sfiliamo davanti ad un'auto bruciata, una banca sventrata, cassonetti ribaltati, a terra di tutto. Sfiliamo verso una piazza grande in mezzo a dei container che bloccano tutte le vie di fuga. Ma chi ce li avrà messi?, mi chiedo incredula. Non so bene com'è, mi sento in una specie di zoo in cui l'attrazione sono io.

S'è fatto tardo pomeriggio o appena sera. Torniamo verso il mare nello spazio cibo-concerti-accoglienza del GSF. Bello, tanta gente, un'atmosfera da festa di strada. Incontriamo David e anche Marco. Mangiamo qualcosa e comunque chiacchieriamo. Come stai tu? Dov'eri? Che te ne sembra? Passa il tempo e non ricordo com'è Eric, David ed io vogliamo uscire, o forse no. Va che si capisce che qualcosa sta andando storto, la Diaz? Ci avviciniamo al cancello, che facciamo? Una signora ci guarda: o dentro o fuori, io ora chiudo il cancello. Noi - a posteriori dei cretini - usciamo.

Genova è piena solo di container. Per strada praticamente nessuno. Camminiamo soli per la strada, con quel passo duro che serve a convincerti che sei uno tosto. Passi decisi, testa alta, occhi pure dietro le orecchie percorriamo strade buie e raggiungiamo la stazione. Piena di gente, persone in ogni angolo, alcuni già nel sacco a pelo non avendo trovato riparo migliore. Il giorno dopo si saranno sentiti fortunati. Treni per Milano, chissà, no, mi pare non ce ne fossero. Una barba nera grida: Eriiiic!! Suo padre: Cosa ci fate qui? No no, via di qui ORA. Con un biglietto che probabilmente diceva Milano saliamo con lui su un treno diretto a Bologna. Non ci aveva lasciato scelta. Voi da qui DOVETE ANDARE VIA.

Io mi sento un po' cagasotto, mi dico che bisognerebbe restare. A fare cosa non so bene. Anche solo a testimoniare, aiutare, stare. O più morbosamente a guardare. Chissà. Viaggiamo così lontano da Genova. La testa confusa, le ossa riconoscenti.

Il giorno dopo leggiamo della Diaz. Solo Il Manifesto riporta la notizia degli hard disk sottratti all'information center, che tristezza e che rabbia.

Mi fa male collegare questo vissuto e le sue conseguenze alla rabbia e al dolore mio e soprattutto degli altri. Mi piacerebbe poter cambiare il finale e ricordare qualcosa di diverso. Per me è un vissuto prezioso. In quei giorni, ogni tanto me lo dico, ho riaperto gli occhi sul mondo. Comunque orbi, almeno da allora fanno esercizio. Mi sento fortunata per questo.

commento di Amnesty International alla sentenza sulla Diaz: http://www.amnesty.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1509

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ognuno di noi ha la sua Genova. La mia è stata quella colorata e festosa della manifestazione dei migranti (il giovedì), anche se la tensione di sottofondo si sentiva. E poi il sabato ho rinunciato ad andare: dopo i fatti del venerdì non me la sono sentita. Vigliaccheria? Forse. A oggi non so ancora se pentirmi di quella scelta o dirmi che in fondo sono stato prudente.

Un abbraccio dalla "macelleria messicana",
Andrea

Anonimo ha detto...

Ciao Tesoro, si ho in mente quelle immagini, l'ansia di non sapere dove eri, mia madre e mio padre che ci strapazza... l'unica volta finora in cui ho capito, seppur lontanamente, cosa possono aver provato i miei genitori tanti ma non troppi anni fa, là in Cile, nel 1973.

La fine della patina che ti fa credere di vivere in un paese "Civile", e non appena la barriera dell'illusione cade ti rendi conto quanto è facile smettere di essere qualcuno, un cittadino per diventare un numero, un nemico, l'altro. Noi che pacifici manifestevamo perchè fiduciosi o semplicemente incazzati e siamo finiti correndo come topi in una genova nera per non finire in qualche ospedale, a rispondere a un kapò difensore della "nostra" democrazia.

Tanti baci amica mia.

erik